Di Paola “ZKR” Zukar
AL 30 Agosto – Settembre 1998

Per anni, la cultura Hip Hop ha influenzato il mondo esterno da cui è nata e prosperata, prendendone degli elementi, rielabolandoli e rigettandoli fuori trasformati, con una connotazione di appartenenza ben precisa.

Ogni singola caratteristica della generazione in questione ha subìto la sua influenza, con un ascendente talmente forte da condizionare ancora e sempre di più le generazioni seguenti. L’aerosol art capace di riaffrescare l’ambiente urbano ed i quartieri; la musica come traino determinante e come colonna sonora del cambiamento; lo sport con una vena di spettacolarità e aggressività positiva che non aveva mai avuto prima; il cinema con un ritrovato e crudo realismo che dipinge porzioni di società raramente raccontate; la politica con una nuova consapevolezza guidata da movimenti che mai vorrebbero ripercorrere le strade dei partiti tradizionali; il linguaggio con la capacità di forgiare ogni secondo nuovi termini e slang in grado di influenzare perfino le rigide leggi del marketing, fino ad arrivare ad Internet, alle bibite, alla religione, alla fotografia, alla grafica e naturalmente all’abbigliamento. Fin dai primissimi anni della sua vita, l’Hip Hop creò un suo proprio e forte senso estetico per quanto riguarda i vestiti, le scarpe, gli accessori, le acconciature e qualsiasi altra cosa riguardasse l’aspetto esteriore in genere: in Italia qualcuno fa ancora fatica a trovare l’anello di congiunzione fra i due aspetti contrapposti della Cultura, esteriorità ed interiorità. La questione è che nel mondo occidentale che tutti conosciamo da circa cinque secoli, questi due aspetti non sono più contrapposti, anzi il più delle volte coincidono. Questo a causa del fatto che, come ha detto brillantemente e lapidariamente un mio amico newyorkese che sia di Hip Hop che di stile se ne intende assai… “Il mondo da cui provengo è ‘materialistic as a muthafuc*er’”.

Ho lasciato la colorita espressione originale perché non potrò mai trovare traduzione di pari livello ed intensità ma, per chi non arrivasse neanche lontanamente al nocciolo della questione, posso suggerire che il mondo, e dunque la società che ci circonda, con le sue regole, non lo possiamo annientare o sottomettere, ma certo lo possiamo condizionare al nostro gusto, fino a quando non riusciamo a farcelo piacere, almeno un pochino. In origine (e qui Phase 2 ed altri suoi compari potrebbero fornirci tonnellate di esempi personali) la fantasia dei ragazzi era tutta orientata a creare un nuovo flavor di suoni, strutture alfabetiche, passi di danza ed accessori mai visti prima. E l’abbigliamento giocava un ruolo determinante per chiunque volesse applicarsi. Lo Stile entra a far parte dell’Hip Hop dal giorno Uno, con degli scopi ben precisi: non rientrare in nessun’altra categoria già sperimentata. Occhiali Cazal, cappelli Kangol, giacche di pelle, Adidas Superstar, t-shirt di nylon, pantaloncini cortissimi e aderenti, tute da ginnastica lucidissime, abbinamenti di colori improbabili, lacci ultra-fat, berretti da sci, fibbie d’ottone con il proprio nome, jeans Lee, catene in oro e/o in argento… Gli anni ‘70 erano agli sgoccioli e già gli mc cominciavano a parlare di quello che portavano addosso; le marche sono state da sempre parte integrante, anche se certo non determinante, dei discorsi di giovani afro-latini delle periferie suburbane newyorkesi; e dove non si arrivava con la cifra da sborsare per avere quel pezzo, arrivava l’artigiano sottocasa che creava nel suo laboratorio quello che volevi con la marca che preferivi.

Comunque, l’innegabile consacrazione della marca come parte attiva della nuova Cultura arriva definitivamente qualche anno più tardi, con il successo mondiale dei Run DMC che spingono la Adidas a livelli imbarazzanti, dedicandole perfino una traccia tutta sua e costringendola, in pratica, a sponsorizzare il loro tour e a decuplicare le vendite. Era l’anno di “My Adidas”, 1986, ma i due mc e il dj Jam Master Jay già da prima, come altri loro soci, si erano divertiti a scrivere rime sulle loro scelte d’abbigliamento e su “Rock Box” del 1983, affermano con sicurezza: “Calvin Klein’s no friend of mine, don’t want nobody’s name on my behind, Lee’s on my legs, sneakers on my feet, D by my side and Jay with the beat…” (“Calvin Klein non è mio amico, non voglio il nome di nessuno sul mio didietro, i Lee addosso, le scarpe da ginnastica ai piedi, DMC al mio fianco e Jay con il ritmo…”). Calvin Klein in seguito si è ripreso, ma tutti i più grandi nomi, da Versace a Ralph Lauren, si sono piegati alla linea imposta dai giovani abitanti delle periferie che, nel frattempo, sono cresciuti, si sono fatti una vita e continuano a decidere che cosa è meglio per loro e per altri milioni di ragazzi in giro per il mondo, sia in fatto di musica che di scarpe. Tuttora la situazione è in evoluzione, ma la diversificazione dello stile nel rap e nell’Hip Hop non ha certo diminuito il bisogno di spendere una parte del proprio stipendio in vestiario. L’Italia sta muovendo enormi passi in questa direzione e siamo, con grande probabilità, la nazione con la più alta concentrazione di designer di stile, credo per una ragione prettamente genetica. Abbiamo raccolto le opinioni di  alcune persone che cercano di coniugare il proprio amore per l’Hip Hop con le proprie capacità ed attitudini per creare qualcosa che faccia parte della faccenda, che costruisca delle basi economiche dal nulla e che, possibilmente, reinvesta gli sforzi nella Cultura stessa. A rappresentare le proprie marche, le proprie idee e le proprie visioni hanno partecipato Alberto “Skill To Deal”, Bad ‘Broke’ Bado, Claudio ‘Bastard’, Jonni e Giacomo ‘Savage’,  Max ‘Gotti & Introw’, Fabrizio ‘Malas’, Luca ‘Slam Jam’ Benini, e Deemo’, consulente per la promozione di Slam Jam.

-Qual è lo scopo principale della vostra attività?

(Bado): “Mettiamola così, l’altra sera sono andato a sentire suonare il Colle a Udine e, sarò onesto, ancora non mi sono abituato al piacere che dà vedere venti o trenta persone che portano addosso la tua roba. Sentire che il Danno fa la rima con il mio nome mi paga più di uno stipendio, anche se devo dire che, fino ad ora, non ci ho ancora tirato fuori qualcosa di serio, perché tutto ciò che stiamo racimolando lo ributtiamo in pubblicità, sponsorizzazioni e in abbigliamento che diamo in giro; non ho mai fatto un conto di quante robe ho regalato, ma vi assicuro che sono tante… La soddisfazione nel mio lavoro viene dalla sana selezione naturale che si verifica sempre, e comunque c’è da tener presente che, bene o male, l’abbigliamento rappresenta nell’immediato, almeno un 50% di quello che uno è. Poi c’è anche il ragazzino che mette i pantaloni larghi solo quando esce di casa perché il padre non vuole e questo è l’aspetto più superficiale e modaiolo della cosa. Ma è sempre stato così: gli anni ‘70 sono stati gli anni del punk, gli ‘80 quelli della new wave e probabilmente i ‘90, in Italia, saranno ricordati come gli anni dell’Hip Hop, o sarebbe meglio dire dello streetwear…”

(DeeMo’): “Da una parte sei fottuto se segui questo discorso, se pensi a tutta la cosa come se fossero delle ere. Io ho una certa stima per le cose basiche che sono riuscite ad impostare uno standard rispetto a qualsiasi moda. La filosofia di marche di determinate ditte che Slam Jam ha scelto di importare per l’Italia è proprio questa. Penso a Carhartt, Freshjive, Stussy… Cross Colours (marca d’abbigliamento americana degli anni ‘80, ndr) una volta era potente, ora non esiste più: sono sfortune economiche, ma non solo. La gente, negli Stati Uniti, ha creato determinati stili “prima” che esistessero le marche; in finale, puoi tirarti assieme il tuo stile anche comprando le cose al mercatino…”

(Alberto): “Uscire con la Skill To Deal è stata un’esigenza dettata dalla mancanza di prodotti soddisfacenti. Skill To Deal parte nel ’98 perché solo adesso ho trovato un’azienda che mi dia la possibilità di poter realizzare tutte le cose che ho in mente e quando l’aspetto creativo si scontra con la realtà, se non hai un’azienda alle spalle, non combini niente. Quest’azienda, che ha la capacità produttiva all’estero, mi permette di realizzare dei capi particolari che altrimenti non potrei avere e di proporli al pubblico ad un costo non molto elevato. La tendenza del settore nei prossimi anni sarà appunto quella di contenere i costi, in quanto nessuno ha soldi da buttare e tantomeno l’utilizzatore finale. La mia capacità creativa deriva dall’esperienza e non da una scuola; cerco di essere originale e di non imitare cose già esistenti o di tralasciare la grafica come ho visto fare. Se ci impegnassimo a fondo tutti insieme e osassimo di più, potremmo smetterla di scimmiottare gli americani e potremmo rompergli il cu*o, visto che loro in questo momento stanno facendo quello che Diesel e Replay facevano dieci anni fa. Mi piacerebbe vedere gli americani venire in Italia a comprare, oltre ad Armani, anche qualcosa di nostro…”

-Parlando di immagini confezionate, è certo che guardando una buona pubblicità hai già tutto pronto davanti a te, non c’è bisogno di darsi da fare per selezionare un gusto proprio, vale per i vestiti ma anche per la musica con i video multimilionari…

(DeeMo’): “Il fatto della pubblicità sui giornali e dei video che ti propongono immagini ben precise impedisce magari che arrivino altre cose, forse altrettanto belle, ricercate ed interessanti, così come succede con Mtv che mostra solo la roba mainstream ed esclude degli ottimi prodotti underground. Il fatto di limitarsi a comprare solo la roba che vedi su Mtv o sulla grossa rivista americana, magari può escludere la possibilità ad un piccolo produttore di proporre le sue cose pure migliori. Slam Jam in Italia è importatore di roba che realizzano dei writer di New York di cui Aelle ha parlato un botto di volte e che sono un pezzo enorme della nostra storia. Parlo di Futura 2000 per esempio, e della sua Project Dragon, una marca che produce roba molto basic, ma ci sono anche altre marche importantissime come PNB Nation, formate da gente legata alla cultura Hip Hop o a quella dello skate… Il fatto che non la porti Puff Daddy nel video, a noi, alla gente che si succhia ‘sta roba e ha voglia di sentirsi parte di una famiglia di persone allo stesso livello, non gliene frega un ca**o. Anche alla gente che produce roba alla Hilfiger della Cultura non gliene frega un ca**o e questo è sicuro. Futura, se incontra per strada il fruitore medio, è contento perché conosce qualcuno che fa la sua stessa cosa, qualcuno con cui si sente connesso. Se pensiamo al successo del tessuto mimetico, camouflage, ci rendiamo subito conto di come nasce la nostra roba, si tratta di Army Surplus (l’usato dell’esercito Usa, ndr.), lo stesso vale per Carhartt o Woolrich… La gente, magari senza avere tanti soldi in tasca, tira fuori uno stile da quello che può permettersi… Certi stili sono nati proprio da quello che potevi permetterti…”

(Bado): “Qui si tratta anche di una diversa filosofia che si trova dietro alla produzione; anche graficamente si vede che si tratta dell’evoluzione dell’Hip Hop, soprattutto dopo aver visto i lavori più recenti di Futura…”

(DeeMo’): “Ci si può anche rifare a qualche esempio musicale: per esempio, Futura collabora graficamente con certe etichette, tipo la Mo’Wax, che solo un tipo come Ice One sa apprezzare come Hip Hop, mentre per altri sono cose troppo sperimentali. Bisognerebbe far entrare un po’ di gente nella macchina del tempo e trasportarli ai primi party di Bambaataa o Kool Herc nei parchi del Bronx per far vedere loro che, a quel tempo, la gente suonava di tutto e quel ‘tutto’ era Hip Hop e quel ‘tutto’ veniva girato sulla schiena dai b-boy. L’Hip Hop era spingere avanti le frontiere e se adesso parte di questa scena che arriva a noi in maniera più compatta è diventata una specie di forma monolitica immobile, questo è un problema della scena, non è un problema di chi spinge oltre. E’ un problema della scena stessa.”

-Quali sono stati gli inizi del cosiddetto streetwear in Italia?

(Luca Benini): “Quando ho cominciato, non c’era praticamente nulla. L’inizio, nel 1987, era rappresentato dalle t-shirt Def Jam fasulle… Nell’arco di un’estate ne avrò stampate cento e vendute altrettante. Poi nel 1988, c’era la roba Run DMC, Beastie Boys, Boogie Down Production, LL Cool J, perfino Adidas… Dopo queste cose la prima mossa importante fu l’importazione di Troop nel 1989; questa marca, all’epoca, era conosciutissima, grazie alle copertine dei dischi di Stetsasonic e LL Cool J… Alberto di Wag (noto negozio di abbigliamento streetwear di Milano, ndr.), fu probabilmente l’unico a non rimetterci in tutta questa faccenda che all’inizio era davvero piccolissima. Attraverso un tipo di Bologna sono entrato in contatto con i coreani che producevano Troop e che avevano sede a Manhattan; cercai di venderla in giro, ma tutto quello che i negozianti vedevano era una brutta copia di Avirex… All’inizio Troop era l’unica e la prima, a livello mondiale, ad essere fatta per la gente di quell’ambito e ad ottenere un ottimo successo di vendita; a New York, nel 1988, ‘89, credo che arrivò davvero vicina alle vendite di sneakers di Nike o Adidas, rubando un’ottima fetta di mercato a queste due superpotenze. A quel punto qualcuno lanciò una specie di bomba su quella gente, spargendo in giro la voce che fossero addirittura finanziati dal Ku Klux Klan, per cui un giorno spedii una lettera e mi ritornò indietro con la dicitura ‘destinatario inesistente’… Intorno al ‘91 uscì il doppio lp dei Public Enemy e all’interno si pubblicizzava il loro merchandising. Li chiamai e andai nel loro ufficio, a Long Island, per trattare l’importazione delle loro robe. Erano cose fatte davvero male, di pessima qualità, ma all’epoca se ne vendevano abbastanza; quello che comunque mi ha dato la vera svolta è stato Stussy. Da quando sono riuscito ad avere questa marca per l’Italia è stato tutto un susseguirsi di opportunità, da Freshjive a Carhartt. Nel frattempo c’è stata l’esperienza con Major Force… Mentre all’inizio, per vendere cento t-shirt, dovevi scrivere Run DMC o Def Jam, ci siamo messi assieme, Zero T, Deemo’ ed io per pensare a qualcosa che non fosse copiato, ma che fosse solo nostro. Nel 1991 il nome non esisteva nemmeno: Deemo’ disegnò una t-shirt con la scritta ‘Scriba’, con le ali sulla manica, ma il nome era ancora Fruit Of The Loom, fu direttamente Zero T a disegnare il marchio Major Force. Posso anche aggiungere che nel ‘91 il 50% del fatturato era realizzato esclusivamente grazie ad Alberto e al suo negozio… Comunque facevamo tre t-shirt… Il fare di più è proprio venuto nel settembre del 1992, quando il dollaro passò da 1200 lire a 1600. Lì mi sono trovato con dei pantaloni Stussy che non potevo più vendere ad un prezzo competitivo a causa del cambio totalmente sfavorevole; da allora abbiamo iniziato seriamente la produzione Major Force…”

(Alberto): “Inizialmente facevo solo cappelli che erano la cosa più semplice da realizzare ed in seguito ho continuato con i pantaloni, ma ero limitato economicamente. La prima vera esperienza come linea di abbigliamento è stata con la Uprock, insieme a Raptus e Rendo. A quei tempi oltre a noi c’era Benini con la sopracitata Major Force di Zero T e Dee Mo’, ma non c’era un vero e proprio mercato in quanto tutto l’interesse era concentrato a Milano e in poche altre città.”

(Bado): “Io ho cominciato per scherzo; facevo le magliette per i gruppi musicali della mia zona ma, intorno al ‘90 ho conosciuto Rusty che si disegnava e si stampava delle maglie per conto suo, si era perfino comprato la giostra, questo macchinario con delle braccia dove tu metti la maglietta e stampi in serigrafia. Io, Mace e il mio socio attuale, Stefano avevamo solo sentito parlare della Major Force fino a che Master Freez ci ha portato una t-shirt a vedere, da allora ci sono venute in mente molte idee. Poi abbiamo cominciato con della roba prettamente da skate, mentre l’evoluzione verso l’Hip Hop è stata automatica, perché le due cose erano molto connesse…”

-Siete d’accordo sulla connessione tra skate e Hip Hop?

(DeeMo’): “Qualsiasi cosa dica l’integralista islamico della scena, ci sono delle energie di strada che vanno nella stessa direzione; ognuno di noi si trova più o meno bene con gente che ha altri viaggi energetici che nascono comunque sulla strada. Pensiamo al fotografo che firmò le prime copertine della Def Jam, Glen E. Friedman… Lui fu lo stesso a fotografare anche la scena hardcore e skate in California… Le due scene non sono necessariamente la stessa cosa ma hanno sicuramente almeno un punto in comune. Cercare di metterli assieme per forza è una bestemmia che lasciamo ai giornaletti di costume, perché ognuno di noi conosce benissimo le differenze, non c’è bisogno di spiegarle. Semplicemente mi piace sottolineare i punti di contatto che ci sono, magari ritrovarsi nella stessa strada, ascoltare gli stessi pezzi… Magari ti capita di avere la stessa energia che ti fa girare sulla schiena, però ci metti una tavola sotto…”

-Come nella musica, anche per l’abbigliamento, che come sempre segue i passi di questa Cultura, a New York si sta aprendo il bivio commerciale-underground e dove, da una parte, si va alle feste tutti tappati in Ralph Lauren e Versace, dall’altra si va alle jam o agli showcase venue con Fubu, Ecko, PNB, 555 Soul… Tutte marche di aziende relativamente piccole con un sapore più fresco rispetto ai giganti Nike, Adidas o Polo…

(Alberto): “In origine, tutto quello che veniva connesso alla Cultura aveva un retroterra nello sport, cambiava lo sport e poi magari le cose venivano raffinate con gusti diversi, ma il denominatore comune era lo sport. Oggi ci sono nomi in giro che non c’entrano un ca**o, ma provano comunque a vendere. All City Clothing è il termine che ho coniato pensando ad un abbigliamento per tutte le città, di carattere puramente commerciale ma anche con una punta di innovazione. Inizialmente con la parola streetwear si voleva raggruppare l’abbigliamento Hip Hop, sportivo e degli skaters; ha poi assunto diversi significati e chi fa parte della scena è stufo di sentirne parlare. Ho voluto creare All City Clothing anche per uscire dai limiti dello streetwear e dell’abbigliamento sportivo che sono puramente americani e pensare ad un fashion casual, ad un design ispirato dai ragazzi.”

(Max): “Secondo me dà fastidio a chiunque vedere diecimila maglie tutte uguali… Si cerca un ritorno al sapore originario, all’artigianato o a qualcosa di vero, comunque… Perché le cose iniziali erano quelle per pochi. Se ce l’avevi solo tu godevi il doppio…”

(Giacomo): “Ancora adesso è così. Ci sono sempre persone che comprano cose particolari e che vanno a cercare marchi che non sono largamente pubblicizzati e che non hanno una produzione massiccia. Questa è una cosa ottima, perché costringe le ditte stesse a produrre cose differenti e ad impegnarsi di più nell’evoluzione dello stile…” 

-Il rap americano gioca un ruolo determinante nella maggior parte dei pezzi composti in Italia e in altri paesi. Infatti abbiamo ancora come riferimento i cambiamenti che i suoni prendono nelle diverse zone degli Stati Uniti. Voi che tipo di ispirazione traete dai designer americani?

(Luca Benini): “Se dovessi ricreare una linea nuova non sarei assolutamente ispirato solamente dall’Hip Hop perché non trovo più niente che mi apra gli occhi, tanto quanto le prime cose che vidi quasi dieci anni fa.”

(Fabrizio): “Come sappiamo benissimo, stiamo vivendo una cosa che non è nostra, a ‘sto tavolo siamo tutti bianchi, italiani, e veniamo da una cultura completamente diversa. Purtroppo. A me piacciono le loro cose e mi rendo conto che se fossi nato là avrei una visione completamente diversa della Cultura. In realtà siamo Malas, Malaspina, è roba italiana, concepita qui e con delle possibilità molto più limitate rispetto al mercato statunitense. Il bello della faccenda è che qui non esiste ancora vera concorrenza perché chiunque, qua dentro, faccia qualcosa meglio di me, aiuta anche la mia roba ad andare in giro. E se io faccio per bene un pantalone e poi lo vedo andare in giro su qualcuno, mi fa fiero tanto quanto penso sia fiero un mc che si sente suonare il suo pezzo in giro.”

(Giacomo): “L’ispirazione nostra è tutta quanta americana, per forza. Dalla musica all’abbigliamento. Noi però abbiamo il nostro piccolo e chiaramente dobbiamo cercare di lavorarcelo per bene, altrimenti non costruiamo niente in Italia. A Termoli, nel negozio, ho sempre cercato di comprare prima marchi italiani e poi marchi esteri. Se devo promuovere qualcuno, cerco di far avanzare qualche italiano, per dargli un’inizio migliore…”

(Claudio): “Avendo iniziato ad andare in skate a quattordici anni (già un po’ di tempo fa quindi), gli skate all’epoca li dovevi ordinare dall’America, le riviste erano tutte americane e, di conseguenza, ho subìto una forte influenza da parte di quello che mi circondava. Per quanto riguarda però lo stile dei prodotti in sé, non mi sento tanto ispirato dalla scena americana. Anzi, se guardiamo a qualche esempio nel mondo dello snowboard, da alcuni anni è la scena americana che torna a guardare all’Europa in cerca di input…”

-Nell’Hip Hop non sempre si riconosce all’abbigliamento, come per altre componenti quali la fotografia, la grafica o la scrittura, una valenza artistica; ma visto che necessitano anch’esse di una visione strettamente legata alla Cultura, penso che non si possano sminuire come semplici accessori superflui o non necessari…

(Fabrizio): “Malas è formata solo da b-boys che, oltre all’abbigliamento, mettono insieme anche dei mixtapes e delle faccende in ambito soprattutto underground, strettamente connesse con robe tipo “Ill Circuito” con storie di Esa, MauryB, Fritz, di gente che si muove bene anche in altre zone dell’Hip Hop. Per la prima volta una realtà che è ‘esterna’ entra e si lega con la realtà ‘interna’, dei b-boys, fondendo il proprio stile con la Cultura vera e propria.”

(Jonni): “Noi abbiamo fatto ‘sta cosa perché sia io che Giacomo, ci siamo sempre trovati all’interno del mondo dell’abbigliamento grazie al lavoro dei nostri genitori. Purtroppo il fatto di essere collocati in una realtà lontana dai grandi centri come Milano e Roma, rende molto difficile la possibilità di esprimersi; al contrario, con i vestiti siamo riusciti a trovare qualcosa che possa tirar fuori la nostra capacità di espressione.”

(Claudio): “In quest’ambito noi ci siamo praticamente ritrovati quasi per caso, nel senso che proveniamo direttamente dallo skate. Chiaramente siamo sempre stati in contatto con la scena, visto che con Sean, Gruff e Kaos, ad esempio, ci siamo conosciuti nei primi tempi del Muretto (posto di ritrovo storico a partire dai primi anni ‘80, nel centro di Milano, ndr), e ci siamo contaminati a vicenda… Ancora adesso diciamo di essere molto aperti nelle nostre scelte artistiche, proprio per questo passato storico assai crossover. Abbiamo lavorato con Phase 2, ma anche con gente che proveniva da ambienti molto diversi. Qui in Italia si è sviluppata una creatività davvero imponente, soprattutto in ambito Hip Hop per cui, ad esempio, ci sono writers tipo Kado, che è partito con le bombole ed ora dirige i video dei Casino Royale. E’ un po’ questo il tipo di esperienza che ci interessa, un’apertura che coinvolga ambienti diversi, ma con la stessa radice, in modo da sviluppare una buona vibra…”

(Max): “Noi siamo partiti dal negozio che avevamo a Novara per poi subire le prime influenze americane che ci hanno convinto a proseguire su questa strada. Le altre cose mi interessavano di meno rispetto al design, quindi mi sono concentrato su questo aspetto dell’Hip Hop. Per me l’esperienza di questi anni è stata parecchio dura, fino ad ora sono parecchio disilluso su quello che ho visto. Il lato artistico del mio mestiere è quello che mi dà più gioia e soddisfazione, ma purtroppo mi sono scontrato troppe volte con la realtà e la distanza tra la poesia e la realtà è sempre molto dura da accettare. Quando abbiamo cominciato avevamo zero. Zero soldi, zero stilisti, zero assoluto e tutto quello che abbiamo costruito, che poi non è ancora un granché, mi fa rendere conto di essere ancora un piccolissimo puntino rispetto alle marche estere, inoltre il tempo che è passato mi ha fatto vedere la cosa meno intesa come poesia…”

(Fabrizio): “Il fatto è che noi, quanto alcuni altri, ci dobbiamo spesso rapportare con gente che dell’Hip Hop non gliene frega un ca**o e tantomeno della sua filosofia. Possono essere i più altruisti della storia, ma comunque ti devi comportare ‘commercialmente’ con queste persone… Fra di noi è diverso, ma se si parla di entrare in un sistema commerciale che abbia rapporti anche minimi con l’esterno, allora bisogna mettersi bene in mente che la parte artistica rimane limitata. Il nostro obiettivo è comunque quello di creare lavoro per tanti, per dare un futuro a chi finisce la scuola e non sa che ca**o fare… La nostra realtà deve rimanere connessa con le persone che ti stanno vicino, per creare una sorta di famiglia anche all’interno dell’ambito lavorativo…”

-Il fatto che per vincere in un certo ambiente sia necessario parlarne il linguaggio è un fatto assodato: chi dal di fuori, capisce il tipo di comunicazione che nasce e prospera all’interno, ha già raggiunto il suo obiettivo…

(Claudio): “Il fulcro di tutta la storia è proprio il linguaggio; quelli come noi hanno successo perché non siamo arrivati a conoscere e decifrare il linguaggio, al contrario, è proprio il nostro. Le ditte grosse, con i capitali dietro, hanno dovuto mettersi lì a studiarlo, per cui abbiamo avuto un vantaggio di almeno un paio di anni. Il fatto è che ora ci stanno arrivando. Lo vedono con la pubblicità che fai, lo vedono quando sei in giro, dal prodotto, dal catalogo, da come ti comporti… All’inizio hanno sbagliato, ci hanno messo un po’ di tempo, ma tanti ora stanno riuscendo a capire.”

(Max): “E’ anche vero che le grandi aziende si vanno sempre più spesso ad appoggiare a gente esperta e del settore. E’ una cosa commerciale normalissima: un’azienda si affida ad uno stilista, quindi un’azienda intelligente capisce che non può riuscire ad arrivare senza avere la chiave di lettura di tutta la faccenda. E questa ‘chiave’ sono strettamente le persone che hanno qualcosa di più che non solo una visione sporadica tratta dai giornali… Un sacco di aziende che non hanno capito niente di questo discorso non fanno altro che copiare, ma in realtà, portare avanti lo stile è un’altra cosa e chi non si fa il mazzo è destinato a soccombere. C’è da dire anche che adesso le grosse aziende stanno dando le opportunità a persone che in questa cosa ci credono e che ne sanno, fornendo loro potenti mezzi per potersi sviluppare oltre i limiti ristretti con cui ti scontri se sei da solo. Bisogna però cercare di trascinare l’azienda e non di farsi trascinare, altrimenti hai perso. Ora credo sia il momento giusto per tentare questa strada…”

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